Albert Low
La forma è vuota
3ème Millènaire n. 60 – Traduzione
della dr.ssa Luciana Scalabrini
3m. Come il buddismo
zen integra la nozione di risveglio nella via che propone?
A.L. Ci sono due modi di rispondere. Anzitutto non c’è risveglio.
Nello stesso tempo è necessario risvegliarsi, realizzarsi! Il risveglio è
adesso. Parlo, mi vedete, ed è già il risveglio. Ma abbiamo l’impressione che occorra qualcosa di più, che sia al di là di noi. E’ quest’illusione
che bisogna capire profondamente. Per questo bisogna risvegliarsi.
3m. Capire quella illusione significa che tutto è già lì?
A.L. Si. E poco importa se ci si risveglia o no.
Non c’è un premio da vincere. Niente che possa essere raggiunto come diventare
improvvisamente una persona soprannaturale. Il problema è che mescoliamo l’idea
del risveglio con l’ idea cristiana della santità. Non
c’è nessun collegamento tra le due cose.
3m. La personalità
che è costruita e perciò condizionata, ha un’immagine della realtà sovrapposta…
A.L. Abbiamo l’impressione che ci sia una persona che è qualcosa
nel mondo. C’è dunque da una parte quella impressione
di essere una persona, e d’altra parte il fatto di essere risvegliati. Sono già la totalità. Ma
l’impressione di essere qualche cosa nel mondo ha per conseguenza che sono
abitato dalla credenza nell’esistenza di qualcosa di concreto, di completo al
di fuori, al di là di quel che sono. Si può anche
dire: ho la sensazione di me stesso, e questa sensazione
è presente costantemente in ciascuno. Questa sensazione di essere separato dal
mondo. Ci sono io e c’è il mondo. Io e gli altri, io e Dio. Io sono completo, ma credo di
non esserlo. E questo mi spinge a cercare la totalità.
Essere totale, secondo il mio punto di vista errato, mi permetterà di risolvere
i problemi della vita.
La maggior parte delle persone hanno
una percezione della totalità, della non
separazione, del risveglio. Improvvisamente, c’è la realizzazione
della totalità! Si può dire esattamente ciò che è accaduto, ma la realtà è svanita. Questo non è il capolinea.
La sensazione di separazione, di essere una persona unica nel mondo non può
essere superata in un colpo solo. E’ necessario un lungo lavoro per sciogliere
quella sensazione.
3m. Si può dire che,
provvisti di quella percezione, di quella
realizzazione che non è l’ultima, possiamo discernere sempre di più il falso
della personalità?
A.L. Si, certo. E non è facile! Si dice:
quella persona è risvegliata. E nella nostra mente,
quella persona dovrebbe essere perfetta. Non è così che succede! Disgraziatamente
molti hanno avuto quella sensazione e cercano di dare l’impressione di essere perfetti. In più tutti proiettano su quelle
persone l’idea che sarebbero speciali.
3m. C’è la
proiezione della gente, ma anche il modo in cui la persona che si crede
risvegliata, in buona fede, percepisce quelle proiezioni e ciò che lei stessa
proietta! Come distruggere totalmente l’illusione? Con che lavoro?
A.L. Il lavoro principale è affrontare l’umiliazione. E’ la
sofferenza a cui è assolutamente necessario far fronte. Dicevo poco fa che tutti hanno
la sensazione di essere unici in questo mondo. E’ la
verità! Ognuno è unico. Ma le persone cercano di
esprimerlo con la forma. Si può vedere col nazionalismo. Gli ebrei dicono di
essere la razza eletta. Anche gli inglesi lo dicono. I
tedeschi anche… Io sono unico e anche il mio paese lo è, io mi ci identifico, e anche nella squadra di calcio. E se la squadra nazionale perde il campionato, è
un’umiliazione. Per questo dico di affrontare l’umiliazione, per abbattere quell’illusione
di essere unico. E’ come se avessi l’illusione di
sedere su un trono e qualcuno mi dicesse che non è vero. Terribile!
3m. Insopportabile
per l’ego…
A.L. Assolutamente. Ma non dico di cercare
l’umiliazione, sarebbe masochista. Se si è pazienti,
il mondo ci offrirà molte occasioni di essere umiliati. In molti l’umiliazione
genera la collera. E’ un modo di ristabilire la posizione di essere
unico, al centro del mondo. Questi fenomeni si svolgono automaticamente in noi.
3m. Ma affrontare
l’umiliazione necessita di un minimo di
disidentificazione da quelle reazioni emozionali…
A.L. Gesù diceva di porgere l’altra guancia.
3m. Io non ne sono
capace.
A.
L. Certo. La maggior parte di noi non ne è capace. Ma è il vero
lavoro. C’è in noi, profondamente, una contraddizione che crea la nostra
sofferenza. Creiamo quell’idea di essere unici per
risolvere quella contraddizione. La sensazione di essere
unici è un punto stabile. Quando non si può mantenere,
si provoca una ferita. Come toccare una piaga aperta. La pratica deve portarci a monte di quelle
contraddizioni, a monte della sofferenza. Se non si
attraversa la sofferenza, il vero risveglio non accade. Il risveglio peraltro
non è qualcosa che accade necessariamente ai praticanti della via zen, o di
qualsiasi altra via. Può accadere spontaneamente. Conosco persone che, senza
comprendere quello che gli stava accadendo, sono venute da me per una
spiegazione. Si trattava chiaramente di un risveglio. Per una di quelle persone il risveglio è
accaduto dopo un divorzio molto difficile, seguito da una depressione severa.
Per un altro è la sofferenza di vedere il figlio colpito dalla leucemia. Ogni
volta il risveglio era legato alla scomparsa dell’identificazione a cui erano
legati. Ma, quando non si è dentro ad uno schema tradizionale, quel tipo di risveglio può essere
recuperato dal mentale che vuole mantenere il senso di essere unico. Quindi nella maggior parte dei casi non c’è un cambiamento
radicale. Può esserci per mesi, ma non si mantiene.
Il risveglio non è un’esperienza. E’ un cambiamento di
qualità.
La vita non è più vissuta in termini di separazione, io e
gli altri, io e il mondo. E non c’è nemmeno unità. Infatti, non si può dire nulla. E’ come volessimo
partire per un viaggio, ma non troviamo i biglietti. Il taxi ti aspetta fuori,
sei in panico. E improvvisamente un amico trova i
biglietti. C’è un attimo di eccitazione. Infatti, i biglietti non erano mai stati perduti! In questo
modo si può comprendere che c’è un’esperienza che accompagna quel momento, ma quel
momento non è un’esperienza.
Aggiungerei però che il risveglio non è la cosa più
importante. Ciò che importa è la sensazione di essere
unici al mondo.
Perché le guerre, il terrorismo, le rivoluzioni, la
sofferenza che si infligge a se stessi e agli altri
viene da quel sentire. L’essere umano è prigioniero di quel sentire. Quel
veleno è il vero problema ed è difficile lottare contro quello
senza risveglio. Difficile, ma non impossibile.
3m. Parlate di
sofferenza e del suo ruolo nel risveglio. Se si evita
la sofferenza, non accade nulla. Ma se la si affronta,
si produce uno chock che può essere una realizzazione.
A.L. Si. E’ così. In una via tradizionale, lo si
vede nei racconti dei maestri zen, i maestri appaiono a volte molto crudeli con
gli studenti. Creano delle situazioni di sofferenza che possono
essere viste coscientemente, un’atmosfera in cui è possibile realizzarsi
col loro aiuto. Direi che questo non è necessario nella nostra società. Noi
siamo troppo fragili. Un abitante della Cina del 10° secolo non aveva nessuna distrazione come
noi. Noi abbiamo da affrontare ogni sorta di problemi nella vita
quotidiana. Di conseguenza non siamo
centrati nello stesso modo. Quando si è molto centrati, solo uno shock esplosivo può
farci oscillare. Ma noi occidentali siamo sempre in una situazione di ansia, di fragilità, di umiliazione, di colpevolezza. Perciò una persona può utilizzare i problemi della vita per
lavorare su di sé. Tutta la sofferenza è fondata sull’umiliazione o il senso di
colpa, e invito sempre ad affrontare ciò che c’è in questo momento. Molti
credono che bisogna mettere da parte la sofferenza della giornata perché
sarebbe un ostacolo per praticare lo zen. Ma in quel
caso non c’è nessuna pratica dello zen. Perché la
pratica si fa con tutti i nostri pesi. Affrontare ciò che è reale: la
confusione, l’insoddisfazione, l’umiliazione.
3m. Qualsiasi cosa accada, da che ci si siede in zazen, tutto riemerge. Si dice
che ci si siede in silenzio, ma in effetti come sono brulicanti
i nostri pensieri! E’ lì che si pratica veramente l’affrontare?
A.L. Bisogna fare zazen. Quando
cominciamo ad affrontare, diventiamo molto agitati. E se non siamo ben
radicati, ci sentiamo male e
fuggiamo. E’ come prendere un gatto per la coda. Lui si dibatte e noi cerchiamo
di tenerlo fermo. Lo zazen è questo.
Zazen è affrontare noi stessi.
All’inizio la concentrazione è necessaria per aiutare lo
stabilizzarsi e la circolazione dell’energia. Per esempio concentrarsi sul
contatto tra i due pollici quando le due mani si
posano una sull’altra. La concentrazione è necessaria per aiutare lo stabilirsi
dell’Hara. Una volta stabilito, c’è l’ancoraggio,
anche nel movimento. Poi viene la
respirazione. Quando si segue la respirazione, non è più concentrazione,
ma contemplazione. E’
un’espressione pratica della preghiera di Gesù: “sia
fatta la tua volontà”. Poi la mia. E’ ciò che è di là da me che respira. Questo
è importante.
La mia esperienza è che quando si siede in zazen, la
contraddizione interiore diventa più evidente. Arrivano tensione e sofferenza.
I pensieri sono un modo per
alleviare quella sofferenza. Ecco perché bisogna lasciar cadere i pensieri, poi
passare attraverso quella sofferenza. Attraverso questa bisogna passare per
risvegliarsi, ed è molto forte. Le religioni parlano di morire per rinascere.
Questa morte non può avvenire guardando la televisione. Lo ripeto, il vero
lavoro porta alla sensazione di sé, quella di essere
unici al mondo.
3m. Rimarcate i
pensieri e il carosello che si forma in noi quando ci
si siede in silenzio. Una percezione globale del corpo
può aiutare a staccarsi dai pensieri e permettere un’osservazione meno duale?
A.L. La sensazione del corpo può essere un modo per mantenere la sensazione di sé. Si crede
che si è qualcosa: adesso sono il corpo. Ora non sono il corpo. La pratica è lì
per spezzare quell’identificazione. Certo, non diventiamo vuoti. Viviamo in un
corpo e lo sentiamo, ma la pratica spezza la credenza di essere
qualcosa di speciale.
3m. Parlate del
vuoto. Certi vedono il risveglio come diventare in qualche modo vuoti.
A.L. Non si tratta certo di entrare in un vuoto! Quando le forme
sono il vuoto, vuol dire che le forme non sono separate da me.
Quando sono separate da me, ho
l’impressione che abbiano un loro proprio essere. Noi dobbiamo morire a quello.
E’ il lavoro di morire che importa, che è necessario.
3m. Infatti, non vogliamo morire, non vogliamo lasciare.
A.L. No. Vogliamo essere più larghi. Desideriamo l’espansione. Ma all’inizio viviamo una contraddizione. Senza quella
contraddizione, l’espansione è impossibile. Molti credono che con la pratica non si fa che
salire, che l’empatia col mondo non smetta di approfondirsi. Ma
no! Discendiamo dapprima in inferno e dobbiamo attraversare quell’inferno. Solo dopo questo
arriviamo. Dopo aver praticato per sette anni, sono andato dal mio maestro per
un consiglio. Allora mi ha domandato: “Albert, credi davvero di poter fare
questo lavoro?” In quel momento ho realizzato che non
potevo fare questo lavoro. Era di là dal mio potere. E
improvvisamente fu come se gli Dei mi abbandonassero. Niente aveva più senso
per me. Ma dopo
questo il lavoro si è fatto diverso. Si era mosso qualcosa. Un anno più tardi
ho conosciuto il mio risveglio ed ho proseguito il lavoro col mio maestro
dodici anni dopo il risveglio per consolidarlo. E
continuo a lavorare. E’ una cosa che non si può fare senza pratica, senza
disciplina. Più la pratica è intensa, più il risveglio è radicale.